Nella vita, e chiaramente nell’arte medica, la parola, il suo significato e il tono con cui viene pronunciata hanno un valore immenso, ma purtroppo nell’epoca moderna spesso è stato sottovalutato.
La parola è uno scambio, un sentiero di comunicazione tra il paziente e il terapeuta, e attraverso la parola si crea un vero e proprio patto terapeutico.
I veri maestri, che molti medici hanno avuto la fortuna di incontrare, ci insegnano a non trascurare tre cose. E questo monito accompagna ogni giorno il nostro lavoro, illumina la quotidianità anche quando pare sempre uguale a se stessa.
Il primo la capacità di usare il buon senso.
Davanti a protocolli terapeutici impersonali, a terapie invasive, a percorsi diagnostici complessi e spesso costosi, bisognerebbe fermarsi e riflettere su qual è il senso, se esiste una giusta motivazione e se tutto è veramente fatto per il bene del paziente. A volte, è palese che non è cosi. In questo caso sarebbe più utile astenersi, e la parola utile qui significa davvero preoccuparsi di non nuocere.
Il secondo è il sesto senso.
Quante volte davanti a pazienti che hanno un certo tipo di sintomi, che riportano accertamenti che escludono una problematica seria, capita di riuscire ad ascoltare una sorte di voce interiore che invita a non fidarsi , a cercare altro, contro ogni evidenza scientifica. Il corpo non mente, e il volto lascia trasparire ciò che non è ancora esplicito. E lì ci sono accadimenti inattesi, e avvengono diagnosi a cui seguono guarigioni inaspettate.
Il terzo si chiama la narrazione del paziente.
È una parola che in questi anni è stata usata e anche abusata. Assistiamo a continue narrazione. Anche distorte, in questo campo, e le persone giustamente non sanno più orientarsi.
Questo racconto non è il riportare ciò che viene comunemente raccolto in una anamnesi, per quanto anche accurata. È permettere al paziente di parlare dei sentimenti e delle emozioni che lo hanno accompagnato nelle sue vicissitudini, di parlare delle aspettative che nella vita sono state deluse o attese e soprattutto se ha potuto condividere il disagio o lo ha dovuto gestire in solitudine cercando di rimuoverlo.
Ma ciò che è rimosso dalla nostra mente, torna sempre nella nostra vita sotto forma di malattia.
Ormai la psico-neuro-endocrino-immunologia ce lo ha detto molto chiaramente, e non da poco tempo. É quindi in quel giorno, in quella pagina della vita in cui si è generato il conflitto, che è nato quello che il paziente durante la visita riporta. La sua malattia.
Poi esiste la parola del medico, che ha un potere immenso e spesso sottovalutato dallo stesso operatore. Non si fanno corsi durante gli studi universitari per spiegare alle persone ciò che gli sta succedendo, e tutto è lasciato alle doti personali.
Bisogna scegliere le parole giuste, che abbiano la possibilità di smuovere eventuali blocchi, che siano di esortazione e non di rimprovero, per spiegare che solo il cambiamento può generare e innescare la cura. Il percorso di guarigione arriva da dentro, per prima cosa, e mai dall’esterno.
Il medico non si accorge a volte delle attese, dei timori, delle speranze che il paziente cerca sulle sue labbra del medico. La parola, quando è appropriata, e giusta, può dare la speranza necessaria a cambiare abitudini, a cercare di migliorare lo stile di vita. Se è sbagliata, dura, inadatta, può condannare al dolore chi è di fronte. Può essere un anatema in grado di uccidere una persona.
Il medico non dovrebbe fermarsi ad occuparsi del solo corpo o della sola mente, ma di entrambi e della nostra unicità, e dovrebbe occuparsi soprattutto dell’anima.
Quante malattie sono malattie anche malattie dell’anima stanca, ferita, esausta. Spesso di vivere una vita che non è la sua. Il compito del medico che si fa carico veramente del paziente è dare dignità al corpo, sedare i tormenti della mente e riportare a una dimensione più alta l’attenzione e le aspettative.
Deve riportare a colui che è il vero guaritore, che alberga nelle anime di tutti noi.
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